terça-feira, 7 de setembro de 2010

POST-GUERRA, piccola storia (cui finale se può cambiare)

Ai miei bravi amici della Bosnia Ezergovina (di origine croata, servia, muzulmana ou ebrea), gente che continua a credere nell'amicizia e nella pace mondiale

Ogni mattina, in quelo paese muto, fa eco un urlo gutturale di dolore, del dolore profondo e troppo umano, un grido disperato di paura. Non ci sono più le canzoni provenienti dalle moschee, vuote, violentate, umiliate, neppure le campane della chiesa flagellata e zitta. Ma c'è quel grido gutturale, forti, bagnato da tante lacrime disperate, come il suono delle morti perpetrate dai carnefici nel loro ghigliottine medievale e stupide davanti alla folle stordita e silenziosa.´

Lui apre il suoi occhi, ah, siccome l'incubo fosse stato finito, però trova i sue mani ancora sporche di sangue, bagnate di sangue, mani appiccicose e vivace, quelle mani non dormiranno mai, hanno la loro propia vita, il loro propio tempo, se sono fermate nei discorsi totalitarii, nazionalisti e bugiardi. Quelle mani hanno accolto tali discorsi con convinzione. Le stesse mani che impastavano la pasta di pane, sí, le stesse. Quelle stesse mani che, con una delicatezza greggia e rude, ripienavano di formaggio gli sformati di migliaia di fogli. Quelle mani che avevano potuto fare tanti dolci con polpa di mele o di noci. Mani assassine, mani che sanguinano cumulativi e colpevole ogni mattina, inesorabilmente. Forse per sempre.

Il suo grido cerca di essere un clamore per la vita, una vita perduta, odiata e miserabile che non esiste più in quel villaggio. Ci sono persone, gli stranieri uniti da ogni singolo gruppo etnico, i robot umani che camminano avanti e indietro senza fare rumore. Esseri che hanno occupato i vuoti lasciati per la guerra in quel piccolo paese. Queste persone a volte sorridono, sorridono senza sorridere, però anche senza mai piangere. Alcuni dicono che non si dorme là, forse a causa delle pietre in loro cuscini e tutti gli spine in loro materassi, oltre il peso pesante del cuore. E c'è sempre quel grido, quel grido del'uomo le cui mani sono grondante di sangue, quel povero uomo, una volta venuto a mettere in dubbio a se stesso e credere in gli altri, a ubbidire l’ordine di un'altra persona, quel’uomo che ha accettato le armi e l'odio che hanno messo sulle sue mani, che ha creduto in gli slogan ed accuse falsi ed illusorii, che ha guardato con sospetto i loro vicini, i vicini gli stessi che compravano il suo pane, i vicini gli stessi che tante volte lo avevano invitato a cena, quando la solitudine batteva nel suo petto senza misericordia.

In quel paese oggi zito, il grido di questa mattina è ancora più acuto. Inetto nel trattare con la sua disperazione insopportabile, l'uomo taglia i sue mani piene di sangue con una ghigliottina fatta in casa. Piange sulla constatazione riverberante di anche così non essere riuscito a se sbarazzare del senso di colpa; quindi, sepolta le sue mani nel suo giardino come se fossero semi. Semi, forse, di un mondo senza bugie, senza odio, senza mani assassine. Le bagna con il sangue buono gocciolante dai suoi polsi e, infine, dorme come un essere humano di nuovo.

Il villaggio non ha mai prodotto suono e la sua aurora continua ad essere grigia e silenziosa, come un destino inevitabile.

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